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San Leonardo di Siponto

sito dell'abbazia dedicata al culto di San Leonardo, Manfredonia (FG)

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IL PATRIMONIO DELL’ABBAZIA DI SAN LEONARDO DI SIPONTO - DI ANTONIO VENTURA

Il Monastero di San Leonardo - Origine - Vicende storiche - Formazione del patrimonio.

Sulla statale garganica, nel tratto Foggia-Manfredonia, a pochi chilometri di distanza da Siponto sorge la chiesa di San Leonardo, riconoscibile per le due cupolette emisferiche racchiuse in un tiburio poligonale, per il modesto campanile e per il tipico fumaiolo a torretta che s'innalza sulle costruzioni dell'attiguo convento.
La località, che ospitò la chiesa di San Leonardo, si chiamava, sin dall'epoca normanna, «Lama Volara», probabilmente perché la valle era infestata da ladri, pronti ad aggredire i pellegrini lungo la strada che passava a breve distanza sia dalla chiesa che dalla valle; di qui l'esigenza di costruire nel secolo XII un ospizio per proteggere i viandanti.
Dopo la prima donazione di alcune terre lavorative di Lama Volara che i monaci Agostiniani ricevettero da quattro cittadini di Siponto nel 1127, segui un arricchimento sempre maggiore del patrimonio monastico, grazie soprattutto alla generosità dei principi normanni.
Nel 1129, infatti, il signore del castello di Rignano, Tancredi di Conversano, donò alcune terre vicine al fiume Candelaro; nel settembre 1132, Ruggiero di Terlizzi, signore del Casale di Versentino, affidò agli Agostiniani la chiesa di S. Arcangelo, possesso che confermò, nel marzo 1143, Simone di Tivilla; ed ancora, nel giugno 1144, Enrico de Olbia, «miles et capriles iustifetrius regis», donò la chiesa di S. Pietro costruita già nel 1133.
Il motivo predominante delle donazioni era quasi sempre lo stesso: la salvezza dell'anima propria e, talvolta, anche dei propri familiari, sia che i donatori fossero potenti signori sia che fossero semplici proprietari di terre.
Soprattutto in questi ultimi, però, sopravveniva anche un motivo di interesse, perché in alcuni casi poteva dimostrarsi un ottimo affare donare la terra conservando l’usufrutto. Tuttavia non mancavano i casi in cui si donava solo per essere ricordati nelle preghiere dei monaci; ed appunto in tal senso agì Ruggiero di Terlizzi, già menzionato, che per la donazione non chiese altro «nisi mis sas et orationes».
Talvolta accadeva che i principi normanni, anziché concedere terre al monastero, preferivano confermare tutte le offerte fatte dai cittadini, quasi a convalidare questi atti di carattere privato. In tal senso si comportò Guglielmo II che favorì la Chiesa Sipontina con un diploma del 1167, in cui riconobbe tutte le concessioni fatte in precedenza dai pontefici e dai principi alla chiesa ed all'ospedale ivi fondato ed aggiunse 1l diritto di asilo per tutti coloro che vi si fossero rifugiati. Un'altra concessione del 1179 proveniva dal palatino Roberto, conte di Loretello e Conversano e signore di Casalnuovo, il quale accordò alla Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo, grancia degli Agostiniani edificata nel territorio sottoposto alla sua sovranità, importanti esenzioni demaniali. Neppure i pontefici mancarono di elargire a favore di San Leonardo privilegi, il primo dei quali fu emanato dal territorio di Melfi il 30 giugno 1137, quando Innocenzo II riconobbe la chiesa e l'ospedale dei Canonici Agostiniani di San Leonardo, esentandoli dalla giurisdizione dell'Arcivescovo di Siponto con l'obbligo di versare alla Santa Sede il censo annuo di un'oncia d'oro.
Questo privilegio fu successivamente confermato da Adriano IV, Clemente III e Celestino III, che nel 1197 riconobbe dipendenti da San Leonardo in Lama Volara ben dieci chiese, e Gregorio IX, in un Breve del 1234, ne aggiunse altre quattro. Si chiuse così un periodo splendido per San Leonardo di Siponto, perché, poco dopo il 1242, cominciò la decadenza della chiesa, che alla fine del secolo XIII si denominò San Leonardo «delle Matine», per la sua vicinanza alle «Matine» di Rignano e di San Giovanni Rotondo.
Da alcuni documenti risulta che nel 1261 la chiesa di San Leonardo passò dagli Agostiniani all'Ordine Teutonico che, fondato in Palestina nel 1190 favorito fin dall'inizio dal Imperatore Enrico VI, aveva acquistato molti beni nelle Puglie e, tra gli altri, possedeva nel territorio di Ascoli Satriano delle terre, concesse da Federico II nel 1216  e nel 1231, che successivamente entrarono a far parte del patrimonio di San Leonardo. Quando la chiesa con il monastero e l'ospedale fu in possesso dei Cavalieri Teutonici, riprese vita e divenne un centro economicamente e religiosamente più importante di quanto lo era stato in precedenza. La rinascita venne così a coincidere con la fondazione della Nuova Siponto, che il D'Aloe fissa al 1263.
Nella chiesa di San Leonardo si effettuarono rilevanti restauri e si decorò il suo interno con affreschi e scudi crociati listati di nero tuttora visibili. Il nuovo ospizio fu probabilmente costruito nel 1327, come si può desumere da un contratto stipulato con quattro maestri quell'anno a Foggia dai procuratori di San Leonardo con quattro maestri muratori. Inoltre, durante la  permanenza dell'Ordine Teutonico a San Leonardo si verificò anche un notevole incremento del patrimonio in seguito ad una lunga serie di donazioni da parte di privati cittadini.
Nel dicembre 1279 una certa «Scana uxor Martini» lasciò alla chiesa di San Leonardo, in legato testamentario, tre case «simul coniunctas» con fosse, cisterna, stalla ed altri accessori; ancora più considerevole fu la donazione dei coniugi Nicola da Spinazzola e Bruna del novembre 1285, perfezionata poi nel 1287con un accurato elenco di beni mobili ed immobili: due case in Manfredonia con un casalino sul retro, novecento pecore, dodici giumente e sedici asini tra puledri e puledre.
Nel 1295 Floria, «mulier magistri Bartholomei de Verona de Manfridonia», si fece oblata e donò a San Leonardo una casa in Manfredonia con quattro letti per dormirvi, riservandosi come vitalizio annuo due salme di frumento, un maiale, una pesa di cacio ed una di ricotta. Pure accompagnata dall'oblazione della propria persona fu una donazione fatta nel 1343 da un ricco possidente di San Giovanni Rotondo, «Tancredi de Petro de Carbonaria», che cedette ai Cavalieri Teutonici cento ovini e gran parte della sua proprietà riservandosi il diritto di essere ricevuto a mensa ogni qual volta si fosse recato a San Leonardo.
La più importante e generosa donazione, comunque, si ebbe il 21  ottobre 1305, quando il diacono «Matheus de Manfridonia, primicerius Sypontinus», consegnò al precettore di San Leonardo, Guidone de Amendolea, «(...) domos suas palatiatas tres contiguas seu coniunctas cum muris suis». Questo periodo iniziale del secolo XIV coincise con il momento di massimo splendore del monastero sipontino, che ospitava già, in seguito al trasferimento dalla casa di Barletta, il «Magnus preceptor in Apulia et in Romania» dell'Ordine Teutonico ed era divenuto, pertanto, il centro giuridico economico della Balia di Puglia. Si accrebbero, perciò le concessioni dei sovrani Angioini a favore di San Leonardo, tenendo essi in grande stima l'Ordine Teutonico.
Il 6 agosto 1303 Carlo II d'Angiò, in seguito alle lamentele dei cavalieri, per appropriazioni abusive nei loro territori di erbaggi, fieno e legna, emanò in Napoli una ordinanza, rinnovata successivamente da re Roberto, diretta ad impedire altre ingiuste defraudazioni. Neppure i Durazzeschi mancarono di proteggere l'Ordine Teutonico, perché il 15 marzo 1355 Ludovico emise in Monte Sant'Angelo un'ordinanza in cui assicurava la benevolenza e protezione delle autorità locali, impegnate a tutelare i diritti della casa di S. Leonardo.
Inoltre Carlo III, come in precedenza il re Roberto e la regina Giovanna, confermò il 23 dicembre 1384 tutti i privilegi concessi all'Ordine Teutonico e il re Ladislao il 27 gennaio del 1397 diede nuova conferma, affinché i cavalieri, senza ricevere alcuna molestia, godessero tutte le immunità che erano state loro precedentemente concesse.
In seguito, poiché a causa delle guerre tra Angioini e Durazzeschi le proprietà dell'Ordine avevano subito danni gravissimi, l'11 marzo 1416 il re Giacomo, d'Ungheria e la regina Giovanna II riconobbero di nuovo a San Leonardo i privilegi concessi da Federico II e dai sovrani che si erano succeduti nel Regno dopo di lui.
Comunque, era ormai iniziato un altro periodo di decadenza per la chiesa di San Leonardo che, in seguito alle guerre dinastiche tra Angioini ed Aragonesi, aveva subito molte espoliazioni e danni, come dimostrano i documenti che riportano le ordinanze di Ferdinando d'Aragona sollecitate dalle suppliche di Stefano Grúben, ultimo rappresentante dell'Ordine Teutonico nel monastero di San Leonardo, che, dopo il Grùben, considerato abbazia e beneficio concistoriale, fu dato in commenda dalla Santa Sede a cardinali da essa designati.
Il primo abate commendatario fu nell'aprile 1484 il cardinale di Parma, Giangiacomo Sclafinato, al quale successe nel 1497 il cardinale di Capua, Giovanni Lopez, morto poi a Roma nel 1501. Quando il 9 maggio 1502 il vicerè di Ferdinando il Cattolico, Consalvo di Cordova, confermò alla chiesa di S. Leonardo delle Matine i privilegi dei sovrani precedenti, era abate commendatario Pietro Ludovico Borgia, al quale, il 5 ottobre 1511, successe frate Egidio da Viterbo che fu titolare della commenda fino all'anno 1525.
I due cardinali fiorentini Nicola e Taddeo Gaddi, zio e nipote, amministrarono fino al 1560 la commenda di San Leonardo, che nel 1561, in seguito alla rinunzia di San Carlo Borromeo, fu assegnata al cardinale Nicola Caetani di Sermoneta, dalla cui morte, nel 1585, si avvicendarono tre abati sempre della famiglia Caetani: Enrico che rinunziò nel 1586 a favore del nipote Bonifacio, il quale, a sua volta, nel 1608, la cedette al nipote Luigi, la cui amministrazione non si sa fino a quando sia durata. In effetti le notizie riguardanti San Leonardo si interrompono per tutto il secolo XVII a causa della mancanza di documenti, come fa notare S. Mastrobuoni, che, nella sua opera sull'abbazia sipontina, quando giunge al XVII secolo, precisa soltanto che, nell'anno 1621, nel convento attiguo alla chiesa c'erano i Frati Minori, e aggiunge solo notizie vaghe sugli abati commendatari.
Le fonti, invece, riprendono ad essere esaurienti per il secolo XVIII, quando furono abati commendatari il cardinale Alessandro Albano dal 1721 al 1779 ed il cardinale Pasquale Acquaviva d'Aragona, che, con la sua morte,  avvenuta nel 1788, concluse la serie degli abati commendatari e la storia gloriosa della chiesa di San Leonardo e del suo ospedale; soppresso il 21 gennaio 1809 da Gioacchino Murat con decreto reale.

Il manoscritto - autenticità e valore storico.

Dalle vicende sinora richiamate è rimasto del tutto in ombra quel periodo del secolo XVII, in cui furono abati commendatari due cardinali della famiglia Barberini - Francesco e Carlo; è oggi possibile colmare questa lacuna con l’ausilio di un manoscritto inedito del secolo XVII, conservato presso la biblioteca Provinciale di Foggia, dove è pervenuto in seguito ad acquisto da parte del direttore, Angelo Celuzza.
Si tratta della relazione di una visita pastorale, effettuata nell'Abbazia dì San Leonardo e sue dipendenze nei mesi di maggio e giugno del 1693 dal vescovo di Venosa Giovanni Francesco de Laurentiis per conto del cardinale commendatario Carlo Barberini. Notevole è l'importanza di questo documento, perché fornisce notizie sufficienti non solo per ricostruire la situazione patrimoniale di San Leonardo, ma anche per dedurre le date di avvicendamento dei cardinali commendatari succedutisi nel XVII secolo.
A tale proposito bisogna prendere in esame quella parte della relazione in cui, descrivendo l'interno della chiesa di San Leonardo, il vescovo riporta il testo di una epigrafe voluta dal cardinale Luigi Caetani per ricordare l'erezione di un altare nel 1633:
ALOYSIO CAIETANO, PERPETUO HUIUS ECC(LESI)E COMMEND(ATA)RIO IUBENTE. DOMINO LUCIO DE AMORE VOLANE VALLIS INSAMNIO TROIANE CATHEDR(A)LIS CAN(ONI)CO EIUSQ(UE) EM(INENTISSI)MI ECONOMO, AC GENERALI VIC(ARI)O OBSEQUENTISSIMO OBTEMPERANTE. TEMPLUM HOC DIVI LEONARDI SUB VETERI THEUTONUM RELIGIONE ERECTUM, ET QUATUOR CARDINALIBUS EX EADEM FAMILIA SUCCESSIVE CONCESSUM OLIM ALIIS, TAM FRATRIBUS DIVI FRAN(CIS)CI DE OBSERVANTIA, UT FERVENTIORI DEVOTIONE DIVINOS CULTOS EXERCEANT, ASSIGNATUM, AC AD HONOREM DIVI CAROLI BORROMEI SUI AMPLISSIMI COLLEGIS FRATRIS SACELLUM HOC COSTRUCTUM. ANNO MDCXXXIII... ».
Questa iscrizione, ignorata dal Mastrobuoni, non solo garantisce l'autenticità delle notizie riportate nel manoscritto a proposito di San Leonardo di Siponto, in quanto ne contiene tre già conosciute e storicamente accertate la prima riguardante l'Ordine Teutonico, la seconda i quattro cardinali Caetani, e la terza i frati minori francescani, ma consente anche di stabilire con precisione, cosa impossibile in precedenza, come lamenta lo stesso Mastrobuoni la data in cui la gestione dell'abbazia sipontina passò dall'ultimo cardinale della famiglia Caetani, Luigi, al primo cardinale della famiglia Barberini, Francesco.
Infatti, del primo si conosceva finora soltanto l'anno in cui assunse la commenda, il 1608, mentre del secondo si sapeva solo che effettuò dei restauri alla chiesa di San Leonardo nel 1635 58. Pertanto, la testimonianza dell'iscrizione colma un vuoto di 27 anni, assicura la presenza dei Caetani in San Leonardo nel 1633 e fa dedurre che la commenda fu trasferita dalla Famiglia Castani a quella dei Barberini nel 1634.
Perciò i cardinali Caetani furono titolari dell'Abbazia di San Leonardo dal 1561 al 1634, esattamente per 73 anni, e non, come asserisce il Mastrobuoni sulla scorta delle informazioni fornite dall'autore della «Domus Caietana», «per oltre ottant’anni».
Per quanto riguarda la famiglia Barberini, un'altra iscrizione, pure riportata nel manoscritto e inedita come la prima, informa che l'altro suo cardinale Carlo restaurò una seconda volta San Leonardo nell'anno 1690:
«TEMPLUM HOC AD VETEREM NITOREM REVOCATUM, REPARATUM ASCETERIUM, XENODOCHIUM RESTAURATUM, PANIFICIUM INSTRUCTUM MANDANTE CAROLO. TIT(ULO)'S. LAURENTIS IN LUCINA S(ANCTE) R(OMANE) E(CCLESIE) PRESBITERO CARD. BARBERINO SACROSANCTE VATICANE BASILICE ARCHIPRESBITERO, ET HU IUS MONASTERII PERPETUO COMMENDATARIO. REV(ERENDISSI)MUS P.P. CELESTINUS DE ANGELIS ABBAS DE URIA EIUSDEM EM(INENTISSIMI) DO(MI)NI MINISTER GENERALIS POSUIT.A. D. MDCXC ».
La famiglia Barberini amministrò, quindi, le rendite dell'abbazia di San Leonardo per 70 anni: dal 1634 al 1704.
Il contributo fornito dal manoscritto a tale ricostruzione storico cronologica, può a giusta ragione collocare la relazione del vescovo de Laurentiis tra le fonti storiche più importanti per la conoscenza delle vicende del monastero sipontino; anche perché il manoscritto riporta nelle carte 43-48 un inventario dell'archivio di Torre Alemanna.
Esso si compone di 115 regesti, ciascuno dei quali designa un documento singolo oppure più documenti analoghi raccolti in un unico fascicolo. Il catalogo non è ordinato cronologicamente e neppure per argomento; è probabile che mentre il vescovo esaminava le carte, contemporaneamente ne faceva trascrivere e contrassegnare il regesto con una lettera alfabetica progressiva, successivamente, nel corso dell'elencazione, duplicata triplicata e quadruplicata. Nell'inventario sono elencati 38 privilegi sovrani, 20 papali, e 57 carte notarili, di cui soltanto tre sono donazioni di privati: il testamento di Fra Cola Eletto di Bovino a favore di San Leonardo; le disposizioni testamentarie di un tale « Ricciardello di Troja»; ed infine la donazione fatta da Cola Flaminea a San Leonardo di una casa in Venosa e d'una vigna in contrada di fonte di Ripa.
Per il periodo Svevo sono menzionati undici privilegi, tra cui l'atto di donazione di Federico per sedici aratri di terreno in Acqualata e per trentotto in Brisciglieto nel territorio di Ascoli Satriano; ed un privilegio emanato da Federico II per confermare a San Leonardo tutte le donazioni che in precedenza erano state concesse da Enrico VI nella città di Barletta.
Tra gli undici privilegi angioini e durazzeschi è importante uno di re Roberto che proibisce a chiunque di molestare i frati di Santa Maria degli Alemanni. Infine, per i dodici privilegi di sovrani aragonesi, è menzionata nel catalogo l'autorizzazione concessa da re Alfonso ai frati sipontini di usufruire di dieci carra di sale e dieci di grano ogni anno, autorizzazione successivamente rinnovata da re Ferrante: Per quanto riguarda i privilegi papali, poi, un beneficio di notevole importanza, relativo al diritto di asilo per carcerati e perseguitati, fu quello concesso da papa Adriano IV in una sua bolla.
Invece la tutela dei diritti dell’abbazia dalle usurpazioni altrui era oggetto di un Breve di Bonifacio VIII, che ordinò all'arcivescovo di Bari di difendere da ogni violazione i frati di S. Maria degli Alemanni e provvedere a reintegrarli nei loro possessi.
Delle carte notarili, infine, alcune riguardano i diritti di proprietà che l'abbazia godeva su alcuni territori come quello di Belvedere e di Salpi; altre, invece, contengono notizie sugli interessi economici della chiesa sipontina in varie città pugliesi: Otranto, Rignano, Civitate, Cerignola, Lesina, Bitonto, Calloro, Alcheronte, Brindisi, Ostuni.
L'inventario, sommariamente descritto, costituisce, quindi, una importante fonte storica per confermare l'alta considerazione che godette, presso sovrani e pontefici, l'abbazia di San Leonardo e per conoscere meglio il suo immenso patrimonio. Del quale, a partire dal 1570, gli abati commendatari preferirono vendere i possedimenti più lontani, per acquistarne altri più vicini e di uguale valore, in modo da costituire un complesso economico più controllabile e più redditizio.
Pertanto, alcuni documenti riportati nell'inventario riguardano proprietà, che nel 1693 già da tempo non appartenevano più all'abbazia di San Leonardo, e costituiscono solo una indicazione per conoscere il patrimonio della chiesa sipontina nel periodo che intercorre dalla crisi dell'Ordine Teutonico all'avvento degli abati commendatari.

Il patrimonio

Il monastero di San Leonardo aveva una posizione economica di invidiabile sicurezza, perché possedeva un patrimonio terriero talmente vasto da assicurarsi non solo i prodotti necessari per la sopravvivenza, ma anche una rendita cospicua.
Le sue proprietà si estendevano intorno a tre centri principali: Foggia, Manfredonia e Torre Alemanna. Dai più vicini dintorni di Foggia le proprietà si allargavano a macchia d'olio su tutto l'agro foggiano: Massariola di Foggia, Massaria dell'Arpa e Portata di San Leonardo, per raggiungere la massima concentrazione intorno al monastero, da cui si allargavano lungo tre differenti direttrici; la prima verso i confini dell'agro foggiano: Massariola di S. Tecchia, Massaria del Candelaro, Mezzana di San Chirico; la seconda verso il territorio di San Giovanni Rotondo: Territorio del Macerone, Valle di San Ronzo e Massaria della Gavita; la terza, più ad, est verso San Nicandro: Feudo di Belvedere.
La proprietà fondiaria dell'abbazia non si esauriva qui, perché investiva anche il territorio compreso tra Ascoli Satriano e Cerignola, dove San Leonardo possedeva l'immenso feudo di Torre Alemanna. Per una più chiara comprensione della situazione patrimoniale dell'abbazia, si riassumono in prospetto le notizie più importanti sui fondi rustici di sua proprietà.
Esaminando i dati riportati nel prospetto, il primo elemento che appare riguarda l’indirizzo economico agrario, basato esclusivamente su cereali coltura e pascolo; pertanto anche se le indicazioni sulle colture sono parziali, perché interessano solo alcune proprietà abbaziali, risultano ugualmente utili per delineare gli indirizzi economico-agricoli praticati in Puglia alla fine del secolo XVII. Erano essenzialmente due: sistemi di coltura estensiva e sistemi di coltura più o meno intensiva, dove l'elemento differenziatore non consisteva tanto nella diversa destinazione produttiva del terreno, quanto, soprattutto, nel rapporto esistente tra suolo e quantità di lavoro e di capitale investiti.
Infatti nel sistema di coltura estensiva c'era soltanto l'utilizzazione della vegetazione spontanea di erbe e di piante legnose, mentre l'intensità era minima, tanto se si considera il lavoro, quanto se si guarda al capitale, costituito solo dal bestiame. Il sistema di coltura intensiva, diversamente dalla concezione odierna a riguardo, era caratterizzato dalla prevalenza del seminativo e dalla rotazione continua ottenuta seminando le «ristoppie», cioè le terre non lasciate a riposare, per cui tutto il terreno era coltivato e produttivo, perché il maggese si andava riducendo sempre di più, e nell'estensione e nella durata.
Le rotazioni più frequenti erano: grano duro, grano tenero, biade, maggese; grano duro, grano tenero, fave, maggese; grano, avena od orzo, fave o maggese. Un sistema colturale intermedio tra l'estensivo e l'intensivo era quello caratterizzato dal seminativo in unione col pascolo o col prato permanente; in esso le rotazioni avevano carattere discontinuo perché, quando una parte del terreno era lasciata a riposo, o si preparava il suolo - «maggese lavorato» - oppure si favoriva la vegetazione spontanea per consentire il pascolo - «maggese nudo» -. Le rotazioni erano: maggese lavorato, grano; maggese lavorato, grano, riposo, riposo.
La differenziazione tra i sistemi colturali a pascolo ed a cereali produsse in Puglia, particolarmente nel  Tavoliere, una distinzione tra le aziende rurali, che, in relazione all'indirizzo cerealicolo o pastorale, si definirono «masserie di campo» e «masserie di pecore». Cominciando da quest'ultimo tipo, il centro dell'industria pastorale era costituito soltanto in generale dalla masseria, perché l'elemento fondamentale per l’allevamento era la «posta».
L'intensità di lavoro nelle masserie di pecore non era particolarmente alta perché si limitava alla custodia ed alla cura degli animali, attività che raggiungeva il massimo fervore nel mese di aprile, tempo del bagno agli animali e della tosatura. Per quanto riguarda la rendita economica, un'azienda di duemila animali nel giro di un anno fruttava circa 800 agnelli di allevamento; per l'attività industriale produceva intorno ai 22 quintali l'anno di lana, e, infine, per la produzione casearia produceva di solito una quantità di 28 quintali di cacio e 28 di ricotte.
Completamente diversa era la struttura e l'organizzazione delle «masserie da campo», nelle quali il terreno coltivabile era diviso da due a dieci porzioni, dette «pezze», composte, ognuna, di un certo numero di versure, mentre la quinta parte dell'intera estensione della masserie non si coltivava mai, ma, delimitata da «macere» o da «limitoni» (fossati o arcrini), era riservata, coi nome di «mezzana», a pascolo degli animali impiegati nell'industria agraria.
L'intensità di lavoro era notevole nell'attività cerealicola e richiedeva una minuziosa distribuzione di compiti tra il personale della masseria; dal mese di agosto in poi si preparavano le terre destinate alla semina, che si effettuava dal mese di ottobre a tutto dicembre sul terreno «arrussato», ossia arato una sola volta; successivamente, nel mese di gennaio, i cereali si sarchiavano con la «traglia» o, preferibilmente, con lo «zappullo» ed infine, prima del raccolto, a marzo ed aprile, si svolgeva l'ultima operazione agricola, detta «pungima», che consisteva nella pulitura dei grani dalle piante estranee.
Il rendimento agronomico delle terre era condizionato non solo dai fattori atmosferici, ma anche dalle deficienze dell'apparato tecnologico, dei sistemi colturali, della dottrina agraria, della struttura amministrativa e sociale e delle vicissitudini politiche e militari. In Puglia, comunque, il rendimento agronomico calcolato in un decennio era intorno a valori produttivi soddisfacenti: tomoli 6,83 a 1 per il grano; 7,31 a 1 per l'orzo, 7,66 a 1 per l'avena e 9,77 a 1 per le fave; i cereali più frequentemente seminati per buona qualità e resa erano tra i grani duri la «maiorica» e la «carosella» tra i grani teneri.
L'intensità di lavoro e di capitali, notevoli - come si è detto - per le masserie di campo a differenza di quelle di pecore, unito ai rischi presentati dall'attività cerealicola e allo indirizzo economico prevalentemente pastorale del XVII secolo, produsse, specialmente nelle terre della Capitanata soggette alla Dogana delle Pecore, l'abbandono dei campi ed un notevole abbassamento del valore dei terreni adibiti a cerealicoltura a favore di quelli adibiti a pascolo.
Per una conferma basta esaminare i dati economici riguardanti le terre di San Leonardo: ben tre proprietà, in precedenza sempre affittate, nel1693 risultavano sfitte, perché erano a destinazione cerealicola. Ma motto più significativo, a tale proposito, è il confronto della rendita tra le terre coltivate a pascolo e quelle a cereali: la mezzana di San Leonardo e la Masseria della Gavita, ambedue utilizzate a pascolo, fruttavano scudi 30 e 27 a carro, mentre la Masseria dell'Arpa e quella del Candelaro, coltivate a cereali, rendevano a carro scudi 13, cioè meno della metà della rendita delle terre a pascolo.
Questi dati economici delle proprietà abbaziali concesse in fitto confermano ulteriormente la situazione di crisi, evidenziata dalla recente storiorafia, in cui si venne a trovare alla fine del XVII secolo a tutto il diciottesimo la feudalità meridionale. In questo periodo il baronaggio, pur riuscendo a mantenere una posizione di predominio grazie al potere giurisdizionale ed ai privilegi, venne ad essere logorato nelle sue strutture da un tipo di borghesia agraria sempre più potente e numerosa, che cominciava ad emergere accanto alla nobiltà terriera.. Si trattò, in maggioranza, di intermediari fra proprietari e coltivatori, che finirono col diventare tra i protagonisti più rilevanti dell'accumulazione capitalistica.
I più importanti, fra costoro, furono. senz'altro, i grandi affittuari, la cui ascesa socio-economica fu favorita dal fatto che i proprietari assenteisti, costretti dal continuo aumento del tenore di vita e dei prezzi ad assicurarsi una rendita certa e ad aumentarla, contribuirono a modificare contemporaneamente i sistemi consuetudinari dei rapporti di lavoro. Infatti, invece di occuparsi direttamente dei miglioramenti agricoli necessari per conseguire un aumento di reddito, preferirono affittare i loro beni, e tali affitti vennero concessi o a diretti coltivatori o, più spesso, ai massari oppure a veri e propri intermediari capita:listi. Questi ultimi, di varia estrazione sociale - mercanti, avvocati, usurai, esattori di imposte - assunsero i rischi dell'azienda, senza dedicarvi la propria opera personale, ma solo anticipando i capitali necessari.
I terreni, intanto, continuarono ad essere coltivati da mezzadri o da salariati, oppure ad essere subaffittati, mentre l'imprenditore si limitava a ricavarne i frutti ed a pagare al proprietario il fitto in denaro. I risultati di questo rapporto non esaudirono le speranze dei proprietari latifondisti, che rimasero sempre danneggiati da tale tipo di gestione, perché gli affittuari, da una parte si rivelarono debitori morosi e speculatori abili sul bestiame e sui raccolti, intenti come erano ad esaurire e sfruttare al massimo, durante i 3-6 anni del contratto, le risorse della terra; dall'altra,  grazie alla loro spregiudicatezza ed abilità, riuscirono sempre a realizzare guadagni superiori al fitto versato, perché era loro facile superare, mediante appoggi potenti ed abusivi innumerevoli, le difficoltà del Sistema vincolistico, che impediva il libero commercio delle derrate e ne limitava i prezzi.
Tale situazione determinava un attrito costante fra proprietari e affittuari, perché i primi tendevano sempre ad aumentare la quota del fitto, i secondi, naturalmente, a farla abbassare, come risulta anche da un passo della relazione del de Laurentiis riguardante la masseria dell'Arpa ed i suoi affittuari, i signori Lynelli.
Costoro erano tanto interessati a conservare l'usufrutto della masseria, senza cedere alle proposte di aumento di fitto da parte dell'abate, da ricorrere anche a un prestanome, che gestisse la proprietà per conto loro; la spiegazione di questo comportamento può essere una sola: i Lynelli dovevano disporre di notevoli capitali e, utilizzando il fertile terreno della masseria e la mano d'opera salariale reperibile nelle campagne, riuscivano ad effettuare annualmente una produzione di cereali, non destinata all'autoconsumo bensì alla vendita, tale da consentire la realizzazione di un capitale utile non solo ad ammortizzare quello anticipato per le spese di lavorazione, coltura e fitto del fondo ma anche a garantire, un buon margine di guadagno. Ipotesi questa che è confermata dall'esame approssimativo delle spese di gestione e della produzione cerealicola relative alla stessa masseria dell'Arpa. Se si considera che la somma di denaro occorrente per la semina a grano di una versura di terreno, calcolando anche le spese per gli animali e per gli uomini, era di ducati 18,40 circa i signori Lyneili per effettuare i lavori agricoli nella masseria dell'Arpa dovevano anticipare un capitale di ducati 4.618, che, sommati ai ducati 480 del fitto annuale, giungevano ad un totale di ducati 5.098.
Il raccolto che derivava dalla coltivazione delle 251 versure era non inferiore a tomoli 6.777, calcolando in un decennio una resa media di circa 27 tomoli di grano a versura. Venduto a ducati 0,9 a tomolo, media del prezzo del grano dal 1683 al 1693, fruttava una somma intorno a ducati 6.099, da cui gli affittuari non solo recuperavano il capitale anticipato di ducati 5.098, ma realizzavano anche un guadagno netto di ducati 1.000, come minimo.
Il vescovo de Laurentiis, perciò, propose l'aumento del fitto annuale a ducati 672, cosa che certamente non avrebbe risolto la situazione a vantaggio dell'abbazia, ma sempre a favore dell'affittuario, il quale o rinunciando all'affitto o sfruttando ancora di più le terre e la mano d'opera salariale, avrebbe sempre ricavato un utile dalla situazione; cosa impossibile per i procuratori di San Leonardo. Costoro adottando il sistema dell'affittanza, realizzavano ben altro guadagno per le terre adibite a pascolo, come la mezzana di San Leonardo e la masseria della Gavita, che fruttavano di fitto annuale 2.592 ducati; mentre, se avessero voluto sfruttarle direttamente, avrebbero dovuto anticipare un notevole capitale senza speranza di un immediato recupero. Qualora, infatti, avessero voluto impiantare un'industria pastorale, ad esempio, nella masseria della Gavita, estesa per 520 versure, avrebbero dovuto anticipare un capitale di circa 1.000 ducati per l'acquisto di 2.000 pecore e pagare annualmente ducati 322 di gestione - 36 ducati per il  massaro; 260 ducati per almeno 10 pastori, 2 «cascieri», 2 «butteri» ed i «carosatori»; 200 ducati per il vitto; 22 per il sale da dare in un anno alle pecore, e 4 per attrezzi vari.
Il capitale realizzato annualmente nell'azienda pastorale sarebbe stato di circa 1102 ducati: 320 per gli agnelli, 588 per la lana e 224 per i formaggi. Si sarebbe venuto a creare, rispetto al capitale anticipato ed alle spese di gestione, un disavanzo di circa 420 ducati. Pertanto, il sistema della affittanza era valido e giustificato per i terreni a pascolo; non lo era, invece, per quelli a coltura cerealicola, che si sarebbero potuti sfruttare più intensamente, anziché essere lasciati improduttivi, come la masseria di Santa Tecchia e la mezzana di San Chirico, o essere utilizzati esclusivamente per una produzione destinata all'autoconsumo, come la massariola di Foggia. La gestione, che - come si è visto - era talvolta semplice e deficitaria  per alcune proprietà dell'abbazia, diveniva invece attenta e proficua per il più importante feudo che possedesse San Leonardo, quello di Torre Alemanna, il cui territorio offriva possibilità di utilizzazione più  vantaggiosa che ali altri fondi, perché si estendeva per 2.864 ettari e non era sottoposto ad alcun vincolo doganale.
In effetti, l'antica casa di Corneto aveva sempre avuto grande importanza «industriale»; nel secolo XV già esercitava una notevole attività, zootecnica, perché possedeva ben 387 vitelli, 4.335 pecore e 2.025 suini. Comunque, non praticava soltanto il commercio degli animali, ma anche quello della lana e delle pelli, del latte e del formaggi, generi che venivano immessi sul mercato quando eccedevano i bisogni delle comunità.
Nel 1477, sulla base degli studi di B. Schumacher, il personale dell'azienda consisteva in 24 servi, 28 pecorai, 14 pastori, 11 sorveglianti di cavalli e 50 contadini; tuttavia, oltre al personale fisso, c'erano anche dei giornalieri assunti di volta in volta secondo le esperienze dei lavori da portare avanti. Le entrate dell'azienda tra il 1441 ed il 1448 oscillavano tra i 1.972 ed i 5.037 ducati e quelle annuali tra i 1.972 ed ì 3.128. Come si vede, era un feudo molto ricco e produttivo; perciò gli abati commendatari preferirono sempre amministrarlo direttamente, salvo casi eccezionali, come quello ricordato dal vescovo nella relazione.
Il sistema colturale praticato in Torre Alemanna era caratterizzato dal seminativo in unione col pascolo o col prato permanente, secondo la testimonianza del manoscritto: «Nel Libro Mastro del Borri si denuncia, che di questo Feudo è solito di seminarsene un 3°, un altro terzo se ne fanno Maese, ed un altro 3° serve a Pascolo d’erba per gli animali della Casa»; successivamente era intervenuta una modifica a questo stato di cose, dettata, quasi certamente, da motivi economici, perché si legge ancora nella relazione che al momento della visita le versure da seminare si erano ridotte da 800 - a - 500, delle quali solo 350 coltivate a grano e il resto ad orzo. Quest'ultimo dato sulla riduzione delle terre a coltura è importante per stabilire se la gestione economica di Torre Alemanna rientrasse in un tipo di produzione del settore feudale o commerciale.
Nei recenti studi di W. Kula è stato evidenziato che nel sistema curtense, allorché il prezzo e la domanda di un prodotto calano, la produzione tende a crescere, e viceversa; pertanto, l'andamento dell'economia feudale si configura come completamente opposta a quella capitalistica.
Infatti, nell'economia curtense il prodotto viene in larga misura autoconsumato ed il resto scambiato; quando le ragioni di scambio peggiorano per i prodotti agricoli, il signore tende a dilatare la produzione della propria azienda per compensare con la maggiore quantità venduta il minor prezzo. Nell'agricoltura capitalistica, invece, un simile fenomeno determina, a parità di lavoro prodotto, un freno e non uno stimolo alla produzione, per ragioni abbastanza evidenti. Sulla base di queste premesse, in parte accettabili per la Capitanata di fine 600, la riduzione del terreno adibito a cerealicoltura in Torre Alemanna ha una motivazione non precisamente capitalistica, ma commerciale, in quanto risponde ad una esigenza di mercato.
Intorno al 1636, data del Libro mastro del Borri, infatti, quando il prezzo del grano, a causa della grande richiesta, oscillava da un minimo di 12 ad un massimo di 21 carlini a tomolo, la produzione cerealicola del feudo fu incrementata e si seminavano 800 versure l'anno; successivamente, verso la metà del secolo XVII a causa della flessione dei prezzi del grano, la produzione fu ridotta e si limitò la semina a 500 versure, di cui 350 a grano, mentre si potenziò l'allevamento che, a differenza della cerealicoltura non l'allevamento che, a differenza della cerealicoltura non solo evitava il rischio di contrasti con la Regia Dogana e con i locati, ma incontrava maggiore favore sul mercato, anche per la vicinanza della Fiera di Foggia; nella relazione è  riportata, infatti, la notizia che nell'anno 1693 nella Fiera erano stati venduti 33 bovini dell'allevamento di Torre Alemanna.
La prevalenza dell'attività zootecnica su quella cerealicola in Torre Alemanna trova riscontro nell'ispezione fiscale del vescovo all'allevamento, che consisteva in 203 capi di equini e 280 di bovini; per l'allevamento ovino non sono riportate cifre nel manoscritto, perché le pecore si erano già spostate in Abruzzo, ai momento della visita: comunque, non dovevano essere meno di 3.000 capi, considerando che la parte del feudo riservata a pascolo si estendeva per 800 versure.
Quindi, la consistenza dell'allevamento praticato in Torre Alemanna era di circa 3.000 ovini, 203 equini e 405 bovini, compresi naturalmente i 100 buoi e i 25 bufali utilizzati per i lavori agricoli. Di conseguenza, il personale fisso nel feudo si componeva di almeno 20 lavoratori agricoli, 10 « giumentari », 1 capo gualano e 6 «gualani», 10 vaccari, 15 pastori; e, durante la mietitura, venivano assunti anche lavoratori alla giornata.
A completare l'organizzazione economica di Torre Alemanna bisogna ricordare l'esistenza di una neviera, che fruttava circa 100 scudi l'anno, di una «colombaia», con più di 500 colombi, i quali venivano venduti quando eccedevano i bisogni dell'azienda ed, infine, di una vigna che producevano barili di vino l'anno. Le notizie della relazione testimoniano, dunque, , la destinazione commerciale dei prodotti di Torre Alemanna, di cui, in base ai dati conosciuti, si può agevolmente calcolare quale fosse, in via approssimativa, la produzione e l'entrata annua.
Le spese del feudo, che ammontavano a circa 4.513 ducati, riguardavano: il personale fisso addetto all'agricoltura ed alla custodia degli animali, il personale salariale per i lavori agricoli più necessari, l'acquisto del seme per la produzione cerealicola e del sale per le pecore, vengono riassunte nel seguente prospetto: La produzione cerealicola era di circa tomoli 9.450 di grano, che fruttavano intorno a 8.505 ducati e di tomoli 5.400 di orzo, che fruttavano sui 2.700 ducati; l'allevamento ovino produceva in tutto non meno di 2.250 ducati - 839 in lana, 728 in formaggio, 640 in agnelli, 44 in pelli - Complessivamente quindi, le entrate lorde ammontavano a circa 13.455 ducati, da cui, sottratti i 4.513 di spese, rimanevano intorno a 8.942 ducati di guadagno, senza calcolare quello derivante dalla vendita alla Fiera di Foggia di bovini ed equini. Sulla base di questi elementi e di quelli già posseduti, i riguardanti i fitti, si può calcolare approssimativamente, e comunque molto in difetto, a circa 12.278 ducati la rendita annua complessiva dei fondi rustici posseduti da San Leonardo.

Il fitto di case e taverne - I contratti

Il patrimonio di San Leonardo non consisteva soltanto in fondi rustici, ma comprendeva altre proprietà come case e taverne, concesse in fitto a privati.
Entro la cinta delle mura di Foggia, in contrada dei Morticelli, l'abbazia possedeva una casa che in precedenza era stata sempre affittata per ducati 60 l’anno; successivamente era stata messa a disposizione dei procuratori che curavano gli interessi di San Leonardo presso la Dogana delle Pecore.
Dalla descrizione del manoscritto si può avere una idea delle abitazioni foggiane nel secolo XVII: non molto alte, raggiungevano al massimo i due piani; al pianterreno c'erano una o due stanze abbastanza ampie adibite a stalle e depositi, mentre attraverso una scala esterna, che poteva essere in pietra o in marmo, si saliva al piani superiori dove si trovavano le camere da letto; l'andito che immetteva nell'appartamento era spesso all'aperto.
A fianco delle stanze poteva esserci una terrazza; il pavimento delle stanze, come quello delle terrazze, era quasi sempre a terreno battuto; il tetto, invece, poteva essere a lapillo battuto oppure a tegole. Infine, all'interno della costruzione c'era il cortile, al centro del quale si trovava il pozzo da cui attingere l'acqua necessaria alla vita quotidiana.
Fuori delle mura cittadine l'abbazia possedeva nel piano delle fosse, nel tratto compreso tra la Basilica di San Giovanni Battista e la chiesa di S. Rocco, sei fosse di grano affittate per un totale di ducati 50 l'anno.
Gli affittuari erano rappresentanti di famiglie ricche ed illustri, come ad esempio Domenico della Posta, che aveva in fitto anche le tufare di Santa Tecchia, e Antonio Calabria. Oltre questi beni, l'abbazia non possedeva alcun'altra proprietà in Foggia.
Disponeva, invece, nel perimetro delle mura della chiesa di San Leonardo, di un forno e di una taverna, affittata per ducati 91 l'anno; un'altra taverna ed un forno in Torre Alemanna annualmente fruttavano ducati 816.
Il fitto complessivo di queste proprietà ammontava a ducati 957, che, sommati ai ducati 12.278 rendita calcolata dei fondi rustici, danno l'ammontare dei frutti annui della commenda in 13.235 ducati netti. Questa somma - si è già detto - non costituisce il valore preciso di tutti i beni abbaziali, la rendita dei quali doveva essere senz'altro superiore ai 13.235 ducati, che rappresentano soltanto il frutto, approssimativo per difetto, delle proprietà elencate nei manoscritto.
Le entrate dell'abbazia spettavano esclusivamente all'abate, che in qualità di rettore del monastero e titolare della commenda aveva il diritto di amministrare e godere le rendite del patrimonio di San Leonardo.
I contratti più usuali, che garantivano l'abate nei riguardi dei fittavoli, erano quelli di livello ad annuo censo di durata solitamente triennale, come nel caso della taverna di Torre Alemanna e delle tufare di Santa Tecchia, dove a carico dell'affittuario c'era anche l'obbligo di apportare migliorie alla proprietà presa in fitto; oppure di durata annuale, come per la masseria della Gavita.
Da una sola proprietà dell'abbazia era previsto il pagamento in natura, il territorio del Macerone: «Il Macerone dicono che anticamente fosse Vigne date in enfiteusi agl'huomini di Manfredonia, e San Giovanni Rotonno e che poi disertate sian ritornati i fondi in potere della Menza Abbaziale (…). Tutto si semina dai Cittadini di Manfredonia e San Giovanni Rotonno, e del seminato ne pagano per ogni versura un terzo solamente per il Jus che dicono d'havervi. Nell'anno corrente era in buona parte seminato, mà per la gran siccità che corre, li Massari ne hanno fatto la renunzia in mano del P. Abbate de Angelis».
Il pagamento avveniva una volta all'anno; nel manoscritto non viene indicata alcuna data precisa, ma è logico ritenere che quello in natura avvenisse nel periodo del raccolto, cioè dal 29 giugno, San Pietro, al 9 agosto, San Salvatore, o dal 15 agosto, Santa Maria; oppure durante la vendemmia, dal 12 settembre, il nome di Maria, al 1° novembre, tutti i Santi; anche il pagamento in denaro cadeva in quei periodi, quando il contadino aveva maggiori disponibilità finanziarie: i giorni di pagamento venivano scelti tra le festività religiose soprattutto per non impegnare altrimenti i giorni lavorativi.

La visita pastorale di G. F. De Laurentiis - Caratteristiche

Mediante le visite pastorali si cercava di raggiungere uno scopo fondamentale: accertare la moralità e la religiosità del clero.
Infatti, dall'esame delle relazioni, risulta che, quando era annunciato l'arrivo del vescovo, il quale era sempre accompagnato dal vicario generale in qualità di presidente del tribunale inquisitorio, si faceva obbligo agli ecclesiastici di non allontanarsi per nessun motivo, senza autorizzazione, dalla propria residenza, fino a che non si fosse conclusa la visita.
Per i trasgressori era prevista una multa di 25 once d’oro.
Riguardo alle modalità delle visite, è probabile che operassero due gruppi distinti: uno, diretto dal vescovo, controllava le condizioni in cui si trovavano le chiese, lo stato di conservazione degli arredi sacri, i sistemi di riscossione e amministrazione delle rendite; inoltre, indagava sull'attività pastorale dei religiosi e sulla formazione spirituale e culturale dei sacerdoti.
Il secondo gruppo, invece, guidato dal vicario generale, costituiva il tribunale inquisitorio che interrogava i testimoni, sul cui criterio di scelta nulla, purtroppo, si conosce. Comunque, quando i giudici si imbattevano in qualche religioso che non avesse osservato le disposizioni dei sinodo, o si fosse macchiato di qualche reato, allora approfondivano l'indagine per poterlo incriminare ed iniziare il processo istruttorio.
I processi, tuttavia, quasi sempre si risolvevano con una transazione amichevole, richiesta dall'imputato, oppure con la sua condanna a pene molto lievi.
Per quanto riguarda, invece, l'attività del vescovo, si è già detto che un elemento comune a tutte le visite pastorali erano le indicazioni riguardanti i fattori puramente materiali, come l'alloggio ed il vestiario del clero e l'arredamento delle sacrestie.
Il visitatore, infatti, quando compiva la propria ispezione, controllava, innanzi tutto, gli edifici della chiesa e delle case canoniche e, qualora non esistevano o risultavano inabitabili, ne ordinava la costruzione o il restauro perché il «rector ecclesiae» potesse risiedervi. Insieme agli edifici delle chiese e dei monasteri erano sempre meta dell'ispezione vescovile gli « Ospitali » per i quali nelle visite pastorali si trovano notizie più precise ed accurate che non per gli altri edifici.
Passando ora ad esaminare le caratteristiche della visita del vescovo de Laurentiis, è opportuno precisare, innanzi tutto, che essa osserva soltanto in parte le consuetudini, sopra indicate, delle altre visite pastorali, perché dalla relazione risulta chiaramente che a San Leonardo e Torre Alemanna il prelato si limitò soltanto ad ispezionare gli edifici, controllare gli arredi sacri ed accertare le modalità di riscossione ed amministrazione delle rendite, senza provvedere a istituire alcun tribunale inquisitorio che indagasse sulla moralità e correttezza dei frati minori del monastero.
In effetti, l'intestazione del manoscritto « Visita dell'Abbatia (…) tanto nello Spirituale, quanto nel temporale...», indurrebbe a presupporre anche un'accurata indagine sull'opera pastorale dei sacerdoti; invece, di «spirituale» c'è molto poco nella relazione, in quanto solo in due occasioni, nel corso di tutta la visita, il vescovo accennò all’impegno pastorale dei religiosi.
Lo scopo vero della visita del de Laurentiis non era « spirituale » , bensì esclusivamente «temporale»: controllare l'entità dei beni del cardinale Barberini ed accertarne le rendite.
L'itinerario della visita è facilmente ricostruibile attraverso le indicazioni fornite dal manoscritto. Il punto di partenza del de Laurentiis fu Roma, dove si era recato presso il cardinale Barberini, per ricevere una lista delle proprietà da ispezionare.
Successivamente il vescovo giunse, ai primi di maggio, a Foggia, dove ispezionò le proprietà abbaziali che si trovavano dentro la città ed intorno ad essa; di qui si spostò a San Leonardo e poi, il 22 maggio, a Torre Alemanna, per concludere infine, il 5 giugno, suo giro di ispezione a Santa Maria di Banzi, in Basilicata. Nella relazione il vescovo illustrò con grande precisione le masserie ed i terreni visitati non solo allegandone i disegni, ma precisandone anche l'ubicazione ed indicandone l'estensione, la presenza nel territorio di fiumi o bacini, la natura del terreno e la destinazione a coltura oppure a pascolo. Nel suo giro si avvaleva della collaborazione di due agenti del cardinale: Celestino de Angelis, procuratore nella abbazia di San Leonardo, e Michel'Angelo Honofrij, procuratore in Santa Maria di Banzi.
A costoro chiedeva informazioni minuziose sullo sfruttamento dei terreni, sulla manutenzione degli edifici, sugli allevamenti di ovini, suini ed equini e sull’amministrazione dei fitti percepiti da terreni e masserie. Di ogni proprietà visitata, inoltre, confrontava la situazione economica personalmente riscontrata con quella descritta in un inventario del 1636, detto « Catasto nuovo », in un libro mastro coevo delle proprietà abbaziali redatto da un certo Borri e con quella, più recente, esposta nella relazione di un'altra visita, effettuata da un non meglio identificato vescovo Saulini.
Era, perciò, facile per il de Laurentiis controllare se la gestione dei due procuratori era stata diligente oppure trascurata. Nel corso dell'ispezione numerose osservazioni mosse il vescovo al procuratore de Angelis, a causa delle cattive condizioni in cui erano stati tenuti gli edifici, ed in particolare la chiesa, che presentava notevoli danni al tetto ed alla facciata per i quali ordinò immediatamente restauri; quando passò nella sacrestia, esaminò uno per uno gli arredi sacri e ne fece un accurato elenco.
Poi visitò il monastero, che giudicò dissestato e bisognoso di sollecite riparazioni, perché la torre era quasi totalmente priva di tetto e minacciava di crollare sugli edifici sottostanti. L'ultima costruzione che ispezionò fu l'Ospedale, le condizioni dei quale sia all'esterno che all'interno lo lasciarono soddisfatto.
Accanto alle costruzioni ecclesiastiche c'erano un macinatoio di grano ed un forno, che il de Laurentiis consigliò di non affittare più ad estranei, dopo l'ultima negativa esperienza l’affittuario, infatti, era fuggito senza corrispondere l’affitto, e suggerì, pertanto, di farlo gestire da un dipendente dell'abbazia.
Dispose, inoltre, di effettuare lavori di restauro anche nella taverna, che si trovava entro le mura di cinta abbaziali, specialmente al tavolato del soffitto, perché la paglia, che vistava depositata, cadeva sulle tavole della sala da pranzo e, in particolar modo insistette che si provvedesse a coprire un pozzo contenente acqua putrida, che con il suo fetore infastidiva gli avventori.
A Torre Alemanna il de Laurentiis ordinò di provvedere in particolare all'edificio della torre, perché si trovava in precarie condizioni; questo, comunque, fu il suo unico rilievo negativo, perché, per il resto, rimase soddisfatto sia delle riparazioni già eseguite, sia delle condizioni in cui erano state tenute chiesa e sacrestia.
Quando ispezionò la taverna che si trovava entro le mura di cinta di Torre Alemanna, consigliò di costruire accanto ad essa un edificio che potesse ospitare durante la notte gli avventori, i quali, sino ad allora, erano sempre andati a pernottare nella masseria di Lagnano.
Allorché passò ad esaminare l'amministrazione dei beni; il vescovo si mostrò scontento del procuratore de Angelis perché nell'archivio di Torre Alemanna aveva trovato mancante una platea dell'anno 1552, che il de Angelis avrebbe dovuto avere in consegna.
Non accettò le sue giustificazioni; gli impose, invece, di recuperare il documento insieme ad altri che pure per sua incuria erano andati smarriti.
Altro grave difetto che il vescovo riscontrò nell'amministrazione del procuratore de Angelis fu il suo sistema di riscossione delle rendite, per le quali non teneva alcun serio controllo, cosicché molte di esse non erano state percepite, con grave perdita economica; anzi, durante il controllo delle rendite appurò anche che per negligenza del, procuratore de Angeliis San Leonardo aveva sino ad allora riscosso dalla grancia di Santa Maria di Mornetere in Taranto il pagamento di una tassa che invece spettava all'abbazia di Banzi, come era stato già stabilito nel corso della visita del vescovo Saulini.
Esaurito ogni controllo per i possedimenti di San Leonardo e Torre Alemanna, il vescovo si spostò in Basilicata, per visitare la chiesa di S. Maria di Barizi, i cui beni facevano pure parte della commenda concessa al Barberini.
Purtroppo, per quanto riguarda le proprietà di questa seconda Abbazia la relazione fornisce soltanto poche indicazioni essenziali, che certamente dovevano essere integrate da quelle più accurate riportate in uno dei due elenchi ad essa allegati, che sono andati persi. La chiesa, comunque, sorgeva con altri due edifici - il vecchio e il nuovo convento dei frati francescani – in un bosco esteso circa 30 miglia.
In seguito alla costruzione di una nuova sede per ospitare i religiosi, l'edificio dei vecchio monastero era stato utilizzato per accogliere le famiglie dei coloni dell'abbazia, in tutto 260 persone - 98 capi famiglia, 70 donne maritate, 48 nubili e 44 celibi. Il vescovo ispezionò le camere e le trovò in pessime condizioni; perciò, sollecitò il procuratore Honofrij di provvedere ai restauri necessari, per evitare danni maggiori e per conservare la rendita di 200 scudi annui. Apparteneva, ancora, all'abbazia una vecchia masseria abbandonata, poco lontana dal bosco, che con approvazione del vescovo il procuratore Honofrij aveva fatto restaurare ed adibire a macinatoio di grano e forno, successivamente affittati per 40 scudi l'anno; in questo luogo, comunque, il vescovo non si soffermò molto, mentre condusse una più accurata ispezione in un'altra masseria, dove si praticava l'allevamento dei suini, dei quali compilò in data 5 giugno 1693 un accurato inventario, da cui si apprende che la chiesa di Banzi ne possedeva 2.209.
La visita a S. Maria, infine, si concluse con l'ispezione agli edifici della chiesa ed agli arredi sacri della sacrestia, le cui condizioni il vescovo ritenne soddisfacenti e parole di compiacimento ebbe ancora sia per il procedere dei lavori al convento che accoglieva venti frati, sia per l'attività della scuola di Filosofia e Teologia che la chiesa ospitava.

Visita della chiesa abbaziale di San Leonardo, e suoi annessi.

La Chiesa, e Monastero di San Leonardo con altri edificij à quelli annessi, sono situati sei miglia distanti dalla Città di Manfredonia, ed à punto sopra la via, ò sia Regio tratturo, che da Foggia conduce à Manfredonia, e può quasi dirsi alle radici del Monte Gargàno, hoggi chiamato, il Monte S. Angelo, per che da quello non sono distanti che due miglie in circa.
Sono la detta Chiesa, e Monastero circondati all'intorno da altri edificij, che formano quasi un Castello, e sono dalla parte verso il detto Monte La Panettaria e L'Ospedale.
Dalla parte davanti per dove si ha l'ingresso vi è la taverna, dall'altra parte dirimpetto all'Ospedale suddetto vi sono gl’Orti del Monastero, come pure dalla parte posteriore di esso vi sono similmente gl'Orti, e le Poste di Pecore, onde viene ricinto questo sito talmente, all'intorno, che resta tutto chiuso, ne vi si ha l'adito se non per la porta maggiore dove habbiam detto esservi la taverna, ed àpunto da questa parte vi  appariscono le mura ornate di merli, come può vedersi nel disegno di questo edifizio unito alla sua Mezzana.

Visita della chiesa suddetta

La Chiesa Abbaziale di San Leonardo è situata in mezzo di tutto il sopradetto edificio, ed è fatta à due navate tutta à volta con tre archi, che divide l'una navata dall'altra, et in capo alla navata sinistra dell'ingresso di questa Chiesa vi è la Cappella del Santo titolare, il di cui Altare serve per Altar Maggiore, ed in esso vi è il tabernacolo del santissimo sacramento, oltre la statua e di San Leonardo. Le mura di detta Chiesa, e li pilastri degl’archi di essa sono tutti ripieni di Catene, e ferri, che vengono appesi da quelli, che hanno ricevuto la Gratia d'esser liberati ò dalle Carceri, ò dalla schiavitù de Turchi. Tutta la Chiesa è à volta, ma oltre la volta nella navata destra dell'ingresso vi sono due cuppolette, cioè una appoggiata sopra il primo arco di questa navata, e l'altra sopra il terzo, si come ancora la Cappella di San Leonardo ha una fabrica à guisa di Cuppola.
Oltre L'Altar Maggiore vi sono in questa Chiesa due altri Altari, ò Cappelle il primo de quali che è in capo alla predetta navata destra è dedicato à San Carlo Boromeo, e questo fu eretto, per quanto si raccoglie dalla seguente Iscrittione posta al lato dell'Evangelo di detto Altare, dal Illustre Cardinal Luigi Gaetano l'anno 1634. Aloysio Caietano "Cardinali Eminentissimo nulli secundo, Perpetuo huius Ecclesie Comendatario lubente. Domno Lucio de Amore volane vallis insamnio troiane Cathedralis Canonico eiusque Eminentissimi Economo, ac Generali Vicario obsequentissimo obtemperanie. Templum hoc divi Leonardi sub veteri Theutonum Religione erectum, et  quatuor Cardinalibus ex eadem familia successive concessum olim alijs, tam fratribus Divi Francisci de observantia, ut ferventiori devotione Divinos Cultus exerceant, assignatum, ac ad honorem Divi Caroli Borromei, sui amplissimi Collegij fratris sacellum hoc costructum anno MDCXXXIIII".
L'altro Altare, ò Cappella è situata in fine della Chiesa nella navata sinistra, ed è dedicata a San Ipolito erettavi dalli Locati Abruzzesi, li quali la mantengono di tutto ciò che è necessario per il Divino Culto, e per la Celebratione delle Messe, essendo l'Altare ben provisto di tutto; L'Altar Maggiore, e l'altro di San Carlo si mantengono a spese della Menza Abbaziale.
Nella visita di questi due Altari spettanti all'Abbazia si è veduto non haver altre tovaglie se non quelle con le quali stavano presentemente ricoperti, onde hanno bisogno esser proveduti d'una tovaglia superiore, e di due inferiori per Ciascuno. In oltre l'Altare di S. Carlo ha bisogno di quattro Candelieri, a Croce, di 4 vasetti con fiori, e della tabella dell'Evangelo di S. Giovanni simile all'altre, che vi sono in detto Altare. Le fenestre della Chiesa, particolarmente quelle della facciata d'avanti hanno bisogno si riparino i telari delle vetriate, e si provedino di vetri dove mancano.
La Chiesa non ha tetto di Coppi, ò tegole, ma bensi di lastre di pietra, e questo ha bisogno di esser riconosciuto per che quando piove l'acqua penetra dentro sopra le volte della Chiesa e però conviene ripararlo ove danneggia. Nella facciata d'avanti di detta Chiesa vi sono nate alcune piante de Fichi,  e sono assai grandi, conviene non tagliarle, ma di sradicarle da dentro il muro per che altrimenti ingrossandosi faranno gran danno con smovere il medesimo Muro, come già si vede, che vi hanno fatto qualche fessùra, e con tutto che, per ordine dell'Eminentissimo Illustre Cardinale Carlo Barberini Abbate, fin dall'anno 1690 fosse questa Chiesa risarcita, e ridotta nello stato, che si vede assai comendabile, come si riconosce dalla seguente Iscrittione, non di meno dall'hora in quà ha bisogno delle suddette riparationi.
Templum ad veterem nitorem revocatum, reparatum asceterium, Xenodochium restauratum, Panificium instructum mandante Carolo - titulo S. Laurentij in Lucina Sancte Romane Ecclesie Presbitero Card. Barberino Sacrosante Vaticane Basilice Archipresbitero, et huius Monasterii perpetuo Commendatario. Reverendissimus P. P. Celestinus de Angelis Abbas de Uria eiusdem Eminentissimi Domini Minister Generalis posuit. A.D. M.D.C.XC.
Nella Sacrestia si è veduto esservi bisogno d'una Pianeta  negra ed un altra violacea ordinarie. In oltre vi è bisogno d'un Piviale bianco per che quello che si è veduto esser tutto lacero, Frà le suppellettili sacre, delle quali si è fatto il seguente Inventario, si è ritrovato una Pianeta nuova di seta di vari colori assai bella coll'arme dell'Eminente Illustre Cardinal Carlo Barberini Abbate, e per che non ci sono tonacelle simili per il giorno della festa del Santo, ò altre solennità, sarebbe rnolto condecente se si provedessero, come anche d'un Paliotto simile per l'Altare Maggiore.
Essendosi saputo, che il P. Guardiano passato haveva prestato un Calice di questa Sacrestia al Barone di San Giovanni Rotonno, si è ordinato al P. Guardiano presente, che procuri di recuperarlo, e si è detto anco al P. Abbate de Angelis, ne sarebbe male di ottenere un Breve, che li Frati sotto pena di scomunica riservata alla Sede Apostolica non potessero più prestare supellettili di questa Sacrestia senza licenza del Ministro principale dell'Eminentissimo Illustre Cardinale Abbate.

Inventario della sacrestia.

Pianete bianche n. tre con l'arme dell'Eminentissimo Illustre Cardinal Barberini, cioè una nuova, che è la sopramentovata, e due altre vecchie assai. n. 3. Pianete rosse n. cinque, cioè una di raso fiorato nuova con arme del suddetto Eminentissimo Illustre Cardinale Barberini, una vecchia e lacera con l'arme di Gaetani, e tre pure lacere due senza veruna impresa, e l'altra con arme non cognita. n. 5. Pianete verde, n. due, cioè una con l'arme di Gaetani usata, e l'altra senza arme medesimamente usata. n. 2. Un Piviale di damasco bianco con l'impresa di Gaetani, assai usato. n. 1 Piviale di damasco rosso n. uno usato, con detta impresa. n. 1 Tonacelle di damasco bianco n. due assai usate, con detta arme n. 2 Tonacelle di damasco rosso usate, con detta arme. n. 2 Due Pianete assai lacere, che però quasi non servono più, e sono una violacia con arme di Gaetani, e l'altra negra. Paliotto rosso n. uno vecchio per l’Ospedale, con un panno, per il cantorino, di damasco rosso, con arrne de Gaetani. n. 1 Parati per gli Altari n. sette, cioè 4 usati, e tre buoni tutti con arme dell'Eminentissimo Illustre Cardinal Barberini, eccettuatone uno dell'Altare di San Carlo, che vi è l'arrne de Gaetani. n. 7 Calici n. quattro, uno de quali è di argento buono. n. 4 Tovaglie per Altare n. quattro lacere. n. 4 Camisci quattro festivi. n. 4 Camisci quattro usati. n. 4 Cotte n. tre lacere. n. 3 Messàli n. tre usati. n. 3.

Visita del monastero.

Il Monastero si è veduto haver molta necessità di reparatione massime i tetti per rimediare, che le acque delle Pioggie non cadino sopra i volti, che già si vedono non solo macchiati dalle dette Pioggie, ma anco con pericolo di cadere se non vi si rimedia, e particolarmente sopra il Refettorio vi vuole il lastrico, come pure la torre grande, che è in mezzo di detto Monastero ha bisogno d'esse ricoperta con il tetto nuovo, essendo caduto da motto tempo in quà onde l'acqua, che per essa penetra ne volti, all'infracida, e correndo rischio di cadere può tirare à terra la medesima torre con pericolo di tutto il Convento, e della Chiesa, che li stanno sotto.
Parimenti ne Luoghi Communi è caduto parte del Pavimento, ò lastrico per l'antichità e putridezza, e non dandovisi presto rimedio cadrà tutto.
Le muraglie degl'Orti similmente se non si riparano anderanno tutte à terra, come de fatto ve ne sono andate buona parte massime quelle, che sono divisorie con la Posta delle Pecore.

Visita dell'ospedale

Nel visitarsi l'Ospedale il quale è un Cammerone longo con 10 letti per gl'Infermi, et infermiere, si è veduto, che l'Altare, che stà in capo di esso ha bisogno d'esser allongato almeno un palmo per parte, e la Pietra sacra sarebbe bene che s'incastrasse in detto Altare per che stà tutta fuori sopra di esso, e deve coprirsi con tela incerata.
Questo Altare stà ben proveduto di tutto il necessario per la Celebratione delle Messe, e solamente si è osservato che il Paliotto dovrebbe rinnovarsi con provederne d'uno condecente, come pure la tabella del Lavabo, e per che si è trovato che attorno detto Altare non si è fatta la balaustrata  con Ginocchiatore di tavola intorno, conforme si era ordinato nella visita saulina al n. 13; però si è lasciato ricordo al P. Abbate de Angelis, che ve la facci fare, come pure potrà farsi una Credenza, che chiamano Stipo da conservarsi sotto chiave le Suppellettili sacre, mentre non hanno luogo per esser riposte. Nel resto i letti per gl'Infermi stanno assai bene, e con molta pulizia, essendosi l'Ospedaliere che vi attende con carità, e particolare attenzione, ma per che si è veduto, che non vi sono altre lenzuole se non quelle, che possono bastare per il numero di detti letti, e non per poter rimutarle in caso, che i letti fossero occupati dagl'Infermi, per ciò si è avertito il P. Abbate de Angelis di provederne due ò tre altre para acciò in caso, che bisognino per mutarle, sino che l'altre si fanno imbiancare, possino esservi. Similmente alcuni delli Matarazzi, che vi sono hanno bisogno d'essere accomodati, e di farvi tre Cuscini, con tre pare di foderette.
Oltre il suddetto Cammerone, vi è anco un altra Camera, nella quale l'Ospedaliere fà la Cucina, e questa si fece per ordine della Visita Saulina n.13 e vi sono in essa tutti i vasi, e stigli, che bisognano per l'Ospedale e servitio degl'Infermi. Li Suppellettili, e robbe suddette, nella visita si sono riscontrate con l'Inventario, che si conserva appresso l'Ospedaliere, che è copia Inventario originale, che tiene il P. Abbate de Angelis. Contigua al medesimo Ospedale vi è il sito d'una Camera grande, e nella visita saulina n. 15 fu ordinato, che questa si facesse restaurare bene, e ponervi le lettiere vecchie per la Commodità de Pellegrini che di continuo passano per questo luogo, ma ciò non è stato adempito, e la detta Camera hoggi non serve à cosa alcuna essendo scoperta.
Per salire all'Ospedale si passa per un Longo Corritore fatto tutto di tavole, e questo nella visita saulina n. 12 si ordinò, che si facesse à volta, et il tavolato servisse per il rimanente del tetto del Corritore, ma non si è adempito cosa alcuna.

Visita della panatteria e centimulo.

Il Centimulo col Forno per la Panettaria sta in un Cammerone sotto quello dell'Ospedale, e contiguo à questo sito vi è un altro Cammerone, che parimente serviva per la Panettaria da cui si saliva di sopra in un Magazzèno da Grano, che pochi anni sono s'incendiò, ne dall'hora in quà è stato mai risarcito.
E’ ben vero che il P. Abbate ha cominciato à farvi proviste de legnami ed altro per ripararlo, e se gli è ricordato, che solleciti à farlo, acciò le Pioggie non danneggino li volti, che vi sono.
Questo Centimulo e Panetteria era solito affittarsi, ma l'ultimo Affittuario in tempo del P. Abbate de Angelís non potendo corrispondere all'Affitto se ne fuggì, havendo lasciato debito, che per la sua impotenza non può esigersi, et hora stà vacante anche à riguardo del suddetto incendio, che levò il comodo dell'habitazione e Magazzino suddetti. Essendosi discorso col P. Abbate de Angelis, che sarebbe bene invece di affittare questa Panettaria, quando sarà ristorata, si facesse per conto della Casa, per che fù riferito in visita, che tutti li Locati quali stanno in quel contorno si provvederebbero di Pane colà, per che sarebbero sicuri, che in questa maniera il Panettiere non li verebbe meno, come suol succedere se il Panettiere è Affittuario, non dimeno il P. Abbate par che sia di oppinione contraria sul fondamento, che detti Locati non siano poi per venirvi, e ciò si è stimato di notar qui per che se ne potrebbe far esperienza per un anno, che poi servirebbe per regolamento, e dopo si potrebbe fare ciò che gettassi più conto.

Visita della taverna

La taverna si fa in un habitazione, che è nella parte anteriore per dove si entra in San Leonardo, ed è un Cammerone lungo, che serve per dare à mangiare a forestieri, e vi è la Cucina contigua, come ancora vi sono Le Stalle assai capaci, e tutto questo Edificio è situato dalla parte sinistra del Portone maggiore, e dalla parte destra vi è una Scala per la quale si ascende in alcune Camere Superiori, che pur servono per alloggiar Forestieri, e questa taverna presentemente stà affittata per scudi 38 annui, ancorche anticamente si affittasse per maggior somma, e ciò proviene per che non si trovono tavernari, che voglijno applicarvi.
Questa taverna ha bisogno di molte reparationi, particolarmente il tavolato sopra il Cammerone dove mangiono i Forestieri, conviene risarcirlo per che tenendovi di sopra il tavernaro le Paglie, queste cadono sopra le Menze, e disturbano quelli che mangiono.
Sicome in una Camera contigua dove era un Pozzo, si è detto che si chiuda la bocca di esso per che rende gran fetore, stante che l'acque vi muoiano, et imputridiscono con che potrebbero far qualche danno à quel luogo colla corruttione dell'aria, ed il tutto si è notificato al P. Abbate de Angelis acciò vi rimedi.

Visita della mezzana di San Leonardo in mezzo della quale stà situato il descritto monastero.

Intorno alla Chiesa, e Monastero di San Leonardo vi è una Mezzana Libera dell'Abbazia capace di Carre dodici, e questa si affitta ad uso d’Erba agresta, e stà confinata da tutte le parti con le terre della Regia Corte, come si vede dalla Pianta che siegue. Nel libro Mastro del Borri al 21 si vede che questa Mezzana si affittava, per scudi 180, ma di presente stà affittata ad uso d'Erba à ragione di scudi 30 il Carro, che fanno la somma di scudi 360.

Illustrazione e trascrizione del manoscritto di una "visita pastorale" di fine secolo XVII conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia - Antonio Ventura