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Il patrimonio terriero

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Illustrazione d'epoca dell'Abbazia di San LeonardoIl monastero di San Leonardo aveva una posizione economica di invidiabile sicurezza, perché possedeva un patrimonio terriero talmente vasto da assicurarsi non solo i prodotti necessari per la sopravvivenza, ma anche una rendita cospicua.

Le sue proprietà si estendevano intorno a tre centri principali: Foggia, Manfredonia e Torre Alemanna.

Dai più vicini dintorni di Foggia le proprietà si allargavano a macchia d'olio su tutto l'agro foggiano: Massariola di Foggia, Massaria dell'Arpa e Portata di San Leonardo, per raggiungere la massima concentrazione intorno al monastero, da cui si allargavano lungo tre differenti direttrici; la prima verso i confini dell'agro foggiano: Massariola di S. Tecchia, Massaria del Candelaro, Mezzana di San Chirico; la seconda verso il territorio di San Giovanni Rotondo: Territorio del Macerone, Valle di San Ronzo e Massaria della Gavita; la terza, più ad, est verso San Nicandro: Feudo di Belvedere.

 

 

La proprietà fondiaria dell'abbazia non si esauriva qui, perché investiva anche il territorio compreso tra Ascoli Satriano e Cerignola, dove San Leonardo possedeva l'immenso feudo di Torre Alemanna. Per una più chiara comprensione della situazione patrimoniale dell'abbazia, si riassumono in prospetto le notizie più importanti sui fondi rustici di sua proprietà.

Esaminando i dati riportati nel prospetto, il primo elemento che appare riguarda l’indirizzo economico agrario, basato esclusivamente su cereali coltura e pascolo; pertanto anche se le indicazioni sulle colture sono parziali, perché interessano solo alcune proprietà abbaziali, risultano ugualmente utili per delineare gli indirizzi economico-agricoli praticati in Puglia alla fine del secolo XVII. Erano essenzialmente due: sistemi di coltura estensiva e sistemi di coltura più o meno intensiva, dove l'elemento differenziatore non consisteva tanto nella diversa destinazione produttiva del terreno, quanto, soprattutto, nel rapporto esistente tra suolo e quantità di lavoro e di capitale investiti.

Infatti nel sistema di coltura estensiva c'era soltanto l'utilizzazione della vegetazione spontanea di erbe e di piante legnose, mentre l'intensità era minima, tanto se si considera il lavoro, quanto se si guarda al capitale, costituito solo dal bestiame. Il sistema di coltura intensiva, diversamente dalla concezione odierna a riguardo, era caratterizzato dalla prevalenza del seminativo e dalla rotazione continua ottenuta seminando le «ristoppie», cioè le terre non lasciate a riposare, per cui tutto il terreno era coltivato e produttivo, perché il maggese si andava riducendo sempre di più, e nell'estensione e nella durata.

Le rotazioni più frequenti erano: grano duro, grano tenero, biade, maggese; grano duro, grano tenero, fave, maggese; grano, avena od orzo, fave o maggese. Un sistema colturale intermedio tra l'estensivo e l'intensivo era quello caratterizzato dal seminativo in unione col pascolo o col prato permanente; in esso le rotazioni avevano carattere discontinuo perché, quando una parte del terreno era lasciata a riposo, o si preparava il suolo - «maggese lavorato» - oppure si favoriva la vegetazione spontanea per consentire il pascolo - «maggese nudo» -. Le rotazioni erano: maggese lavorato, grano; maggese lavorato, grano, riposo, riposo.

La differenziazione tra i sistemi colturali a pascolo ed a cereali produsse in Puglia, particolarmente nel  Tavoliere, una distinzione tra le aziende rurali, che, in relazione all'indirizzo cerealicolo o pastorale, si definirono «masserie di campo» e «masserie di pecore». Cominciando da quest'ultimo tipo, il centro dell'industria pastorale era costituito soltanto in generale dalla masseria, perché l'elemento fondamentale per l’allevamento era la «posta».

L'intensità di lavoro nelle masserie di pecore non era particolarmente alta perché si limitava alla custodia ed alla cura degli animali, attività che raggiungeva il massimo fervore nel mese di aprile, tempo del bagno agli animali e della tosatura. Per quanto riguarda la rendita economica, un'azienda di duemila animali nel giro di un anno fruttava circa 800 agnelli di allevamento; per l'attività industriale produceva intorno ai 22 quintali l'anno di lana, e, infine, per la produzione casearia produceva di solito una quantità di 28 quintali di cacio e 28 di ricotte.

Completamente diversa era la struttura e l'organizzazione delle «masserie da campo», nelle quali il terreno coltivabile era diviso da due a dieci porzioni, dette «pezze», composte, ognuna, di un certo numero di versure, mentre la quinta parte dell'intera estensione della masserie non si coltivava mai, ma, delimitata da «macere» o da «limitoni» (fossati o arcrini), era riservata, coi nome di «mezzana», a pascolo degli animali impiegati nell'industria agraria.

L'intensità di lavoro era notevole nell'attività cerealicola e richiedeva una minuziosa distribuzione di compiti tra il personale della masseria; dal mese di agosto in poi si preparavano le terre destinate alla semina, che si effettuava dal mese di ottobre a tutto dicembre sul terreno «arrussato», ossia arato una sola volta; successivamente, nel mese di gennaio, i cereali si sarchiavano con la «traglia» o, preferibilmente, con lo «zappullo» ed infine, prima del raccolto, a marzo ed aprile, si svolgeva l'ultima operazione agricola, detta «pungima», che consisteva nella pulitura dei grani dalle piante estranee.

Il rendimento agronomico delle terre era condizionato non solo dai fattori atmosferici, ma anche dalle deficienze dell'apparato tecnologico, dei sistemi colturali, della dottrina agraria, della struttura amministrativa e sociale e delle vicissitudini politiche e militari. In Puglia, comunque, il rendimento agronomico calcolato in un decennio era intorno a valori produttivi soddisfacenti: tomoli 6,83 a 1 per il grano; 7,31 a 1 per l'orzo, 7,66 a 1 per l'avena e 9,77 a 1 per le fave; i cereali più frequentemente seminati per buona qualità e resa erano tra i grani duri la «maiorica» e la «carosella» tra i grani teneri.

L'intensità di lavoro e di capitali, notevoli - come si è detto - per le masserie di campo a differenza di quelle di pecore, unito ai rischi presentati dall'attività cerealicola e allo indirizzo economico prevalentemente pastorale del XVII secolo, produsse, specialmente nelle terre della Capitanata soggette alla Dogana delle Pecore, l'abbandono dei campi ed un notevole abbassamento del valore dei terreni adibiti a cerealicoltura a favore di quelli adibiti a pascolo.

Per una conferma basta esaminare i dati economici riguardanti le terre di San Leonardo: ben tre proprietà, in precedenza sempre affittate, nel1693 risultavano sfitte, perché erano a destinazione cerealicola. Ma motto più significativo, a tale proposito, è il confronto della rendita tra le terre coltivate a pascolo e quelle a cereali: la mezzana di San Leonardo e la Masseria della Gavita, ambedue utilizzate a pascolo, fruttavano scudi 30 e 27 a carro, mentre la Masseria dell'Arpa e quella del Candelaro, coltivate a cereali, rendevano a carro scudi 13, cioè meno della metà della rendita delle terre a pascolo.

Questi dati economici delle proprietà abbaziali concesse in fitto confermano ulteriormente la situazione di crisi, evidenziata dalla recente storiorafia, in cui si venne a trovare alla fine del XVII secolo a tutto il diciottesimo la feudalità meridionale. In questo periodo il baronaggio, pur riuscendo a mantenere una posizione di predominio grazie al potere giurisdizionale ed ai privilegi, venne ad essere logorato nelle sue strutture da un tipo di borghesia agraria sempre più potente e numerosa, che cominciava ad emergere accanto alla nobiltà terriera.. Si trattò, in maggioranza, di intermediari fra proprietari e coltivatori, che finirono col diventare tra i protagonisti più rilevanti dell'accumulazione capitalistica.

I più importanti, fra costoro, furono. senz'altro, i grandi affittuari, la cui ascesa socio-economica fu favorita dal fatto che i proprietari assenteisti, costretti dal continuo aumento del tenore di vita e dei prezzi ad assicurarsi una rendita certa e ad aumentarla, contribuirono a modificare contemporaneamente i sistemi consuetudinari dei rapporti di lavoro. Infatti, invece di occuparsi direttamente dei miglioramenti agricoli necessari per conseguire un aumento di reddito, preferirono affittare i loro beni, e tali affitti vennero concessi o a diretti coltivatori o, più spesso, ai massari oppure a veri e propri intermediari capita:listi. Questi ultimi, di varia estrazione sociale - mercanti, avvocati, usurai, esattori di imposte - assunsero i rischi dell'azienda, senza dedicarvi la propria opera personale, ma solo anticipando i capitali necessari.

I terreni, intanto, continuarono ad essere coltivati da mezzadri o da salariati, oppure ad essere subaffittati, mentre l'imprenditore si limitava a ricavarne i frutti ed a pagare al proprietario il fitto in denaro. I risultati di questo rapporto non esaudirono le speranze dei proprietari latifondisti, che rimasero sempre danneggiati da tale tipo di gestione, perché gli affittuari, da una parte si rivelarono debitori morosi e speculatori abili sul bestiame e sui raccolti, intenti come erano ad esaurire e sfruttare al massimo, durante i 3-6 anni del contratto, le risorse della terra; dall'altra,  grazie alla loro spregiudicatezza ed abilità, riuscirono sempre a realizzare guadagni superiori al fitto versato, perché era loro facile superare, mediante appoggi potenti ed abusivi innumerevoli, le difficoltà del Sistema vincolistico, che impediva il libero commercio delle derrate e ne limitava i prezzi.

Tale situazione determinava un attrito costante fra proprietari e affittuari, perché i primi tendevano sempre ad aumentare la quota del fitto, i secondi, naturalmente, a farla abbassare, come risulta anche da un passo della relazione del de Laurentiis riguardante la masseria dell'Arpa ed i suoi affittuari, i signori Lynelli.

Costoro erano tanto interessati a conservare l'usufrutto della masseria, senza cedere alle proposte di aumento di fitto da parte dell'abate, da ricorrere anche a un prestanome, che gestisse la proprietà per conto loro; la spiegazione di questo comportamento può essere una sola: i Lynelli dovevano disporre di notevoli capitali e, utilizzando il fertile terreno della masseria e la mano d'opera salariale reperibile nelle campagne, riuscivano ad effettuare annualmente una produzione di cereali, non destinata all'autoconsumo bensì alla vendita, tale da consentire la realizzazione di un capitale utile non solo ad ammortizzare quello anticipato per le spese di lavorazione, coltura e fitto del fondo ma anche a garantire, un buon margine di guadagno.

Ipotesi questa che è confermata dall'esame approssimativo delle spese di gestione e della produzione cerealicola relative alla stessa masseria dell'Arpa. Se si considera che la somma di denaro occorrente per la semina a grano di una versura di terreno, calcolando anche le spese per gli animali e per gli uomini, era di ducati 18,40 circa i signori Lyneili per effettuare i lavori agricoli nella masseria dell'Arpa dovevano anticipare un capitale di ducati 4.618, che, sommati ai ducati 480 del fitto annuale, giungevano ad un totale di ducati 5.098.

Il raccolto che derivava dalla coltivazione delle 251 versure era non inferiore a tomoli 6.777, calcolando in un decennio una resa media di circa 27 tomoli di grano a versura. Venduto a ducati 0,9 a tomolo, media del prezzo del grano dal 1683 al 1693, fruttava una somma intorno a ducati 6.099, da cui gli affittuari non solo recuperavano il capitale anticipato di ducati 5.098, ma realizzavano anche un guadagno netto di ducati 1.000, come minimo.

Il vescovo de Laurentiis, perciò, propose l'aumento del fitto annuale a ducati 672, cosa che certamente non avrebbe risolto la situazione a vantaggio dell'abbazia, ma sempre a favore dell'affittuario, il quale o rinunciando all'affitto o sfruttando ancora di più le terre e la mano d'opera salariale, avrebbe sempre ricavato un utile dalla situazione; cosa impossibile per i procuratori di San Leonardo.

Costoro adottando il sistema dell'affittanza, realizzavano ben altro guadagno per le terre adibite a pascolo, come la mezzana di San Leonardo e la masseria della Gavita, che fruttavano di fitto annuale 2.592 ducati; mentre, se avessero voluto sfruttarle direttamente, avrebbero dovuto anticipare un notevole capitale senza speranza di un immediato recupero. Qualora, infatti, avessero voluto impiantare un'industria pastorale, ad esempio, nella masseria della Gavita, estesa per 520 versure, avrebbero dovuto anticipare un capitale di circa 1.000 ducati per l'acquisto di 2.000 pecore e pagare annualmente ducati 322 di gestione - 36 ducati per il  massaro; 260 ducati per almeno 10 pastori, 2 «cascieri», 2 «butteri» ed i «carosatori»; 200 ducati per il vitto; 22 per il sale da dare in un anno alle pecore, e 4 per attrezzi vari.

Il capitale realizzato annualmente nell'azienda pastorale sarebbe stato di circa 1102 ducati: 320 per gli agnelli, 588 per la lana e 224 per i formaggi. Si sarebbe venuto a creare, rispetto al capitale anticipato ed alle spese di gestione, un disavanzo di circa 420 ducati. Pertanto, il sistema della affittanza era valido e giustificato per i terreni a pascolo; non lo era, invece, per quelli a coltura cerealicola, che si sarebbero potuti sfruttare più intensamente, anziché essere lasciati improduttivi, come la masseria di Santa Tecchia e la mezzana di San Chirico, o essere utilizzati esclusivamente per una produzione destinata all'autoconsumo, come la massariola di Foggia. La gestione, che - come si è visto - era talvolta semplice e deficitaria  per alcune proprietà dell'abbazia, diveniva invece attenta e proficua per il più importante feudo che possedesse San Leonardo, quello di Torre Alemanna, il cui territorio offriva possibilità di utilizzazione più  vantaggiosa che ali altri fondi, perché si estendeva per 2.864 ettari e non era sottoposto ad alcun vincolo doganale.

In effetti, l'antica casa di Corneto aveva sempre avuto grande importanza «industriale»; nel secolo XV già esercitava una notevole attività, zootecnica, perché possedeva ben 387 vitelli, 4.335 pecore e 2.025 suini. Comunque, non praticava soltanto il commercio degli animali, ma anche quello della lana e delle pelli, del latte e del formaggi, generi che venivano immessi sul mercato quando eccedevano i bisogni delle comunità.

Nel 1477, sulla base degli studi di B. Schumacher, il personale dell'azienda consisteva in 24 servi, 28 pecorai, 14 pastori, 11 sorveglianti di cavalli e 50 contadini; tuttavia, oltre al personale fisso, c'erano anche dei giornalieri assunti di volta in volta secondo le esperienze dei lavori da portare avanti. Le entrate dell'azienda tra il 1441 ed il 1448 oscillavano tra i 1.972 ed i 5.037 ducati e quelle annuali tra i 1.972 ed ì 3.128. Come si vede, era un feudo molto ricco e produttivo; perciò gli abati commendatari preferirono sempre amministrarlo direttamente, salvo casi eccezionali, come quello ricordato dal vescovo nella relazione.

Il sistema colturale praticato in Torre Alemanna era caratterizzato dal seminativo in unione col pascolo o col prato permanente, secondo la testimonianza del manoscritto: «Nel Libro Mastro del Borri si denuncia, che di questo Feudo è solito di seminarsene un 3°, un altro terzo se ne fanno Maese, ed un altro 3° serve a Pascolo d’erba per gli animali della Casa»; successivamente era intervenuta una modifica a questo stato di cose, dettata, quasi certamente, da motivi economici, perché si legge ancora nella relazione che al momento della visita le versure da seminare si erano ridotte da 800 - a - 500, delle quali solo 350 coltivate a grano e il resto ad orzo. Quest'ultimo dato sulla riduzione delle terre a coltura è importante per stabilire se la gestione economica di Torre Alemanna rientrasse in un tipo di produzione del settore feudale o commerciale.

Nei recenti studi di W. Kula è stato evidenziato che nel sistema curtense, allorché il prezzo e la domanda di un prodotto calano, la produzione tende a crescere, e viceversa; pertanto, l'andamento dell'economia feudale si configura come completamente opposta a quella capitalistica.

Infatti, nell'economia curtense il prodotto viene in larga misura autoconsumato ed il resto scambiato; quando le ragioni di scambio peggiorano per i prodotti agricoli, il signore tende a dilatare la produzione della propria azienda per compensare con la maggiore quantità venduta il minor prezzo. Nell'agricoltura capitalistica, invece, un simile fenomeno determina, a parità di lavoro prodotto, un freno e non uno stimolo alla produzione, per ragioni abbastanza evidenti. Sulla base di queste premesse, in parte accettabili per la Capitanata di fine 600, la riduzione del terreno adibito a cerealicoltura in Torre Alemanna ha una motivazione non precisamente capitalistica, ma commerciale, in quanto risponde ad una esigenza di mercato.

Intorno al 1636, data del Libro mastro del Borri, infatti, quando il prezzo del grano, a causa della grande richiesta, oscillava da un minimo di 12 ad un massimo di 21 carlini a tomolo, la produzione cerealicola del feudo fu incrementata e si seminavano 800 versure l'anno; successivamente, verso la metà del secolo XVII a causa della flessione dei prezzi del grano, la produzione fu ridotta e si limitò la semina a 500 versure, di cui 350 a grano, mentre si potenziò l'allevamento che, a differenza della cerealicoltura non l'allevamento che, a differenza della cerealicoltura non solo evitava il rischio di contrasti con la Regia Dogana e con i locati, ma incontrava maggiore favore sul mercato, anche per la vicinanza della Fiera di Foggia; nella relazione è  riportata, infatti, la notizia che nell'anno 1693 nella Fiera erano stati venduti 33 bovini dell'allevamento di Torre Alemanna.

La prevalenza dell'attività zootecnica su quella cerealicola in Torre Alemanna trova riscontro nell'ispezione fiscale del vescovo all'allevamento, che consisteva in 203 capi di equini e 280 di bovini; per l'allevamento ovino non sono riportate cifre nel manoscritto, perché le pecore si erano già spostate in Abruzzo, ai momento della visita: comunque, non dovevano essere meno di 3.000 capi, considerando che la parte del feudo riservata a pascolo si estendeva per 800 versure.

Quindi, la consistenza dell'allevamento praticato in Torre Alemanna era di circa 3.000 ovini, 203 equini e 405 bovini, compresi naturalmente i 100 buoi e i 25 bufali utilizzati per i lavori agricoli. Di conseguenza, il personale fisso nel feudo si componeva di almeno 20 lavoratori agricoli, 10 « giumentari », 1 capo gualano e 6 «gualani», 10 vaccari, 15 pastori; e, durante la mietitura, venivano assunti anche lavoratori alla giornata.

A completare l'organizzazione economica di Torre Alemanna bisogna ricordare l'esistenza di una neviera, che fruttava circa 100 scudi l'anno, di una «colombaia», con più di 500 colombi, i quali venivano venduti quando eccedevano i bisogni dell'azienda ed, infine, di una vigna che producevano barili di vino l'anno. Le notizie della relazione testimoniano, dunque, , la destinazione commerciale dei prodotti di Torre Alemanna, di cui, in base ai dati conosciuti, si può agevolmente calcolare quale fosse, in via approssimativa, la produzione e l'entrata annua.

Le spese del feudo, che ammontavano a circa 4.513 ducati, riguardavano: il personale fisso addetto all'agricoltura ed alla custodia degli animali, il personale salariale per i lavori agricoli più necessari, l'acquisto del seme per la produzione cerealicola e del sale per le pecore, vengono riassunte nel seguente prospetto: La produzione cerealicola era di circa tomoli 9.450 di grano, che fruttavano intorno a 8.505 ducati e di tomoli 5.400 di orzo, che fruttavano sui 2.700 ducati; l'allevamento ovino produceva in tutto non meno di 2.250 ducati - 839 in lana, 728 in formaggio, 640 in agnelli, 44 in pelli - Complessivamente quindi, le entrate lorde ammontavano a circa 13.455 ducati, da cui, sottratti i 4.513 di spese, rimanevano intorno a 8.942 ducati di guadagno, senza calcolare quello derivante dalla vendita alla Fiera di Foggia di bovini ed equini.

Sulla base di questi elementi e di quelli già posseduti, i riguardanti i fitti, si può calcolare approssimativamente, e comunque molto in difetto, a circa 12.278 ducati la rendita annua complessiva dei fondi rustici posseduti da San Leonardo.

Illustrazione e trascrizione del manoscritto di una "visita pastorale" di fine secolo XVII conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia - Antonio Ventura